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La rivincita di Michela

Part I sent by Mick and uploaded on data 14/February/2003 03:55:22


Stavo camminando da solo e assorto nel vasto piazzale. Non c’era quasi nessuno in giro, era  mezzanotte e mezza passata. Mi fermai chiedendomi dove avevo parcheggiato quella volta. Mentre aguzzavo la vista per rintracciare la mia auto sotto la disomogenea luce dei lampioni, venni preso da un vago senso di inquietudine, mi sentivo un po’ malfermo sulle gambe. Devi darci un taglio con l’alcool, lo sai che ti fa male, mi dissi. Però quella sera non avevo toccato neanche un goccio. Cercai di non pensarci, perché rovinare una serata che era stata così bella? Ma l’inquietudine tornò, ancora più acuta di prima. Mi appoggiai ad un lampione, sperando che un istante di riposo mi avrebbe fatto bene. Stavo tremando, forse no, era il lampione che stava tremando. Tesi l’orecchio e trassi un sospiro di sollievo: dalla lampada proveniva una udibilissima vibrazione. Chissà che cosa stava passando nelle vicinanze, magari una grossa macchina escavatrice cingolata, qualche lavoro notturno. Strano però, non riuscivo a sentirne il rumore, anzi sì, ma era come una sorta di boato che si riproduceva uguale a se stesso ritmicamente. No, non era uguale, stava crescendo di intensità, ora nessuno poteva non notarlo. Anche l’asfalto vibrava distintamente. Che diavolo stava succedendo? Ipotizzai che la condotta del gas stesse esplodendo gradualmente, ma era una cosa assurda, e poi non c’erano fiamme. Quando lo vidi, mi sentii gelare il sangue. Una grossa ombra indistinta mi si era proiettata di fronte ai palazzi illuminati laggiù in fondo.

Sembrava una figura umana, un qualche inconcepibile e mostruoso gigante e sembrava diretto verso di me. Incredulo e spaventatissimo, mi rifugiai sotto la pensilina degli autobus: di lì avrei potuto scegliere di buttarmi a destra o a sinistra, a seconda di dove avesse scelto di passare il colosso. Le vibrazioni crescevano sempre più di intensità, piccole croste di intonaco cadevano dalla pensilina. Il gigante non arrivava ancora, doveva essere veramente enorme. D’un tratto comparve nell’area illuminata un immenso piede che calzava una ciabattina infradito bianca, poi un secondo, affondati per diversi centimetri nel cemento del piazzale. Dall’aspetto sembravano le estremità di una donna, e chi sa perché in quel momento mi sembravano addirittura familiari. La gigantessa, dunque, stava rallentando l’andatura, ora si era fermata. Il sangue mi si gelò nuovamente nelle vene, che cosa stava cercando? Quali erano le sue intenzioni? Passarono alcuni angosciosi secondi, la situazione non si sbloccava. D’un tratto tuonò la voce della donna colossale: “FRANCO, È INUTILE CHE TI NASCONDI, LO SO CHE SEI LÌ SOTTO. VIENI FUORI!”. Le gambe non ressero più e caddi a terra. Ora mi rendevo conto di chi era la gigantessa. Michela, la mia ex. Era una ragazza dolcissima e carina, stavamo bene insieme.

Ma poi accadde quel maledetto incidente stradale, si ruppe entrambe le gambe e si procurò una vistosa cicatrice al viso. Le stetti accanto per qualche settimana, ma era un periodo critico per il mio lavoro, e io non avevo più voglia di stare a sentire per ore quella lagna che si lamentava isterica perché ci metteva tanto a guarire. La lasciai, e un mese dopo ero insieme con Rossella, la mia nuova segretaria, molto più affascinante, anche se tremendamente opportunista. Ma le volevo bene. Avevo incrociato altre volte Michela, le gambe erano tornate perfettamente a posto, la cicatrice era solo un’ombra impercettibile a prima vista, mi sembrava che avesse messo su qualche chilo, naturale dopo un così lungo periodo a casa. Sospettavo che mi odiasse a morte, e non aveva tutti i torti. “FRANCO VIENI FUORI! OPPURE FACCIAMO CHE VENGO A PRENDERTI IO…”. La sua voce mi riportò bruscamente alla realtà. Uscii nel piazzale, tentando di barcollare il meno possibile, convinto che sarei riuscito a temporeggiare finché qualcuno sarebbe accorso in mio aiuto.

Di Michela vedevo solo fino a poco sopra le caviglie, dove arrivava la luce dei lampioni, i suoi colossali piedi e la parte inferiore dei pantaloni sembravano leggermente impolverati. Guardai verso l’alto, verso il volto lontano di Michela, che non vedevo, ma cercavo di immaginare. “CIAO FRANCO, È DA UN SACCO CHE NON CI SI VEDE… TI TROVO UN PO’ RIMPICCIOLITO, HA HA HA… SAI DOVE SONO APPENA STATA? SONO STATO A DEMOLIRE IL CONDOMINIO IN VIA LEOPARDI 75, LO CONOSCI? AH SI? HA HA HA, DOVEVI VEDERE COME VENIVA GIÙ…”. Nooooo! Urlai disperato, era dove abitava Rossella, e pochi minuti fa era in casa, ne era certo. Dunque aveva voluto vendicarsi, la gigantesca puttana, ma non gliela avrei perdonata, io… che in quel momento ero un verme in confronto a lei. Michela continuava a ridere, probabilmente vedendomi completamente inerme di fronte a lei. Era davvero smisurata, vicino al suo piede sinistro c’era un’auto, un ridicolo giocattolino al suo cospetto, grande circa la metà della sua impronta. La gigantessa dovette accorgersi del mio interesse per le sue dimensioni, sollevò il piede al di sopra della vettura, lo tenne sospeso lì per alcuni istanti, in modo che avessi modo di rendermi pienamente conto di quanto enorme fosse, poi lo abbassò lentamente fino a tornare di nuovo sul piazzale. Della macchina non rimaneva più traccia, completamente sepolta sotto la sua ciabatta. “HAI VISTO CHE GRANDE SONO DIVENTATA? TRA UN PO’ SCHIACCIO ANCHE TE, MA PRIMA MI VOGLIO DIVERTIRE…”. Non mi accorsi che stava chinandosi su di me: le sue dita carnose mi avvolsero completamente e mi sollevarono a velocità prodigiosa davanti al suo volto. Sentivo il suo fiato, sapeva pesantemente di alcool. “SEI SOLO UN VERME, GUARDATI, PICCOLO E INDIFESO, POTREI SPACCARTI TUTTE LE OSSA E TU NON MI POTRESTI FARE NIENTE.  TRA UN PO’ TI SCHIACCIO, SENTI COME SUONA BENE QUESTA PAROLA: TI SCHIACCIO!”. I miei occhi si abituarono all’oscurità, ora potevo vedere bene la luce dei suoi occhi e la sua bocca contratta, mentre parlava, lasciava vedere bene i denti. Sentii in lontananza una sirena della polizia; sono salvo, pensai.

“HA HA HA, LA POLIZIA… LI HO INCONTRATI UN PAIO DI VOLTE QUEI BASTARDELLI, MA SONO SEMPRE SCAPPATI VIA, HA HA HA…” Da via Leopardi a qui c’erano più di tre chilometri, Michela doveva avere seminato un bel trambusto sulle strade… L’auto della polizia si fermò ai margini del piazzale, a lampeggianti e sirene spiegate, ma nessuno usciva per mettere legge alla donna che mi stava tenendo letteralmente in pugno. “MA GUARDALI, CHE CORAGGIOSI… ADESSO VENGO LÌ E VI SCHIACCIO…” La spavalda arroganza di Michela mi permise di rendermi conto di come anche i poliziotti fossero inermi di fronte a lei. Che cosa avrebbero potuto fare le loro pallottole contro di lei? Sarebbero state al massimo fastidiose punture di zanzare. Con prepotenza la gigantessa mi cacciò in mezzo alle sue tette, “STAI BUONO LÌ, MENTRE MI OCCUPO DEI ROMPISCATOLE…”. Tra la sua pelle ed il reggiseno mi rimaneva un bel po’ di spazio; cominciai a dibattermi forsennatamente. “FORSE NON HAI CAPITO CHE DEVI STARE BUONO…” La manona ritornò a raggiungermi e mi posizionò quasi in corrispondenza del capezzolo destro, dove ero completamente immobilizzato dal reggiseno e riuscivo a respirare a fatica. Ogni suo movimento ora si ripercuoteva sul mio corpo, venivo scosso terribilmente ad ogni suo passo. Sentii Michela prorompere in una risata tonante. “HA HA HA, SONO SCAPPATI UN’ALTRA VOLTA I VIGLIACCHI. MI SA CHE QUESTA SERA CE LA DOBBIAMO CAVARE IO E TE DA SOLI…” Piombai nella disperazione, davvero nessuno mi poteva aiutare. Sentivo l’eccitazione crescere nel corpo di Michela, ero completamente in sua balia. “STAI COMODO LÌ? È ABBASTANZA MORBIDO? QUASI QUASI MI VIENE VOGLIA DI CAMBIARTI DI POSTO… LO SAI CHE PICCOLO COME SEI CI STARESTI DENTRO TUTTO, NON È VERO?” Rabbrividii al pensiero di poter essere utilizzato come puro oggetto di piacere per le sue voglie sfrenate, ripresi a dibattermi, la forza della disperazione mi spinse a cercare almeno una trattativa con la gigantessa, una soluzione doveva pur esserci… Michela mi estrasse e mi portò, sul palmo della mano, davanti al suo volto. Ora i miei occhi si erano abituati all’oscurità, riuscivo distintamente a vedere la sua espressione minacciosa.

Cominciai un discorso, la proposta di un accordo che degenerò ben presto in una piagnucolante supplica, visto che l’espressione della gigantessa non mutava di un soffio: “Michela, hai ragione, sono stato un bastardo, un verme, hai ragione, ma possiamo trovare una soluzione, vero… posso darti tutto quello che vuoi, tutto, ti regalo la casa, ma ti prego, non uccidermi, cerca di essere ragionevole, hai solo da guadagnarci, se ritorni normale potrò spiegarti tutto per bene, ti prego, non uccidermi…” La sua voce tuonò coprendo le mie suppliche: “NULLA DI QUELLO CHE HAI PUÒ RICOMPENSARMI TANTO QUANTO SENTIRE IL TUO CORPO SPIACCICATO SOTTO IL MIO PIEDE. MA NON È ANCORA ORA, VOGLIO GIOCARE ANCORA CON TE!”. Michela mi posò delicatamente a terra, proprio tra i suoi colossali piedi e mi lasciò libero. Tremante, guardai verso l’alto per tentare di capire che intenzioni avesse. Probabilmente voleva giocare al gatto col topo, e la cosa verosimilmente le sarebbe riuscita abbastanza semplice. Con due colpi secchi, calciò via le ciabatte, che andarono a demolire la pensilina qualche decina di metri più avanti. “PERCHÉ NON VUOI GIOCARE CON ME? VUOI ESSERE SCHIACCIATO SUBITO?”. Il suo piede sinistro si sollevò dieci metri sopra di me, vedevo distintamente l’enorme pianta corrugarsi, Michela voleva terrorizzarmi, mostrandomi quanto insignificante fossi al suo cospetto. Si stava avvicinando lentamente a me, ma non mi muovevo, se proprio dovevo morire, che mi schiacciasse subito, non ero disposto a lasciarmi tormentare in quel modo brutale. La spessa pelle del piedone si avvicinava inesorabilmente, guardando verso l’alto non potevo vedere nient’altro. Ora era arrivata ad un paio di metri dalla mia testa e non si fermava. Ero proprio sotto le dita, tra un po’ mi avrebbero raggiunto; con tutta la mia forza di volontà cercai di rimanere immobile, ma Michela non si fermava. Le colossali dita del piede gigante erano su di me, la mia testa venne spinta verso il basso con una forza incontrastabile, all’ultimo momento possibile rotolai fuori dalla loro portata, mentre con un sordo boato il cemento sprofondava sotto il peso della gigantessa. “ALLORA CI TIENI ALLA TUA VITA DI MERDA!”.

Aveva vinto lei, ed io ero preda del suo gioco. Stavo ansimando, con terrore vidi le gigantesche dita a cui ero appena sfuggito risollevarsi sopra di me e divaricarsi spaventosamente per ghermirmi. Mi alzai di scatto, sfuggendo ancora una volta per un soffio alla loro presa. Era chiaro che Michela avrebbe potuto spalmarmi a terra quando avesse voluto, ma in quel momento il suo scopo era umiliarmi fino all’estremo. Cominciai a correre a perdifiato nel piazzale quasi deserto, mentre dietro di me la gigantessa muoveva i suoi lenti e poderosi passi al mio inseguimento, facendo tremare l’intera superficie. Sentii un immane spostamento d’aria sopra la mia testa e in quel momento pensai che davvero fosse giunta la mia fine; invece il piede destro di Michela mi sorvolò completamente andando a cadere pochissimi metri di fronte a me. Non riuscii ad evitare di andare a sbattere contro il gigantesco tallone, proprio in corrispondenza dell’attacco del tendine di Achille. Intontito, barcollai via, mentre l’enorme ragazza si lasciava andare ad una risata tonante. “VISTO CHE MI SEMBRI UN PO’ STANCO, TI VOGLIO CONCEDERE UN PICCOLO VANTAGGIO. PER TRENTA SECONDI IO NON MI MUOVERÒ DA QUI. SE RIESCI A SFUGGIRMI TI LASCERÒ STARE PER SEMPRE, MA SE TI PRENDO SARAI MIO E TI USERÒ COME RITERRÒ PIÙ OPPORTUNO… COMINCIO A CONTARE ADESSO”. Sapevo che era inutile, ma cercai ugualmente di mettermi in salvo. Corsi a perdifiato verso gli edifici più vicini, dovevo cercare di scomparire alla vista di Michela. Raggiunsi un magazzino semi abbandonato proprio nel momento in cui la gigantessa scandiva i dieci secondi del suo infernale conteggio e mi buttai verso i primi condomini a poche centinaia di metri da dove ero io. Correvo sul marciapiede, speravo che così la mia inseguitrice avrebbe faticato di più a rintracciarmi e magari avrei potuto confondermi fra gli altri passanti. Venti.

Le strade erano pressoché deserte, un paio d’auto e tre persone che si guardavano attorno attonite cercando di capire da dove provenisse quella voce possente. “TRENTA! AMORE, VENGO A PRENDERTI”. L’asfalto ricominciò a tremare, la cadenza dei passi era lenta, Michela non aveva nessuna fretta di raggiungermi, voleva prolungare il più possibile il suo perfido gioco. I secchi rumori di crollo che provenivano dietro di me indicavano chiaramente che la gigantessa stava camminando con noncuranza sopra il magazzino, nessun ostacolo era in grado di impensierirla. Buttai un occhio indietro, e vidi la sua enorme figura incedere maestosamente al centro della strada. Continuai a correre, ormai avevo quasi raggiunto gli edifici e avevo ancora un discreto vantaggio sulla mia inseguitrice. Le mie gambe non ce la facevano più, ero quasi senza fiato, ma oramai ero a fianco di uno degli alti palazzi. Le vibrazioni dell’asfalto erano sempre più forti, mi resi conto che entro pochi istanti Michela mi avrebbe preso.

Guardai indietro ancora, la potente illuminazione stradale mi permise di vedere che gli edifici che mi circondavano arrivavano appena alle anche della gigantessa, che in tre passi ancora sarebbe stata su di me. Faticavo a reggermi in piedi, difficilmente sarei riuscito a superare l’incrocio che avevo davanti. D’un tratto dall’angolo dell’edificio comparve di fronte a me un uomo con una tuta nera armato di un fucile a pompa, che cominciò a sparare verso l’alto. Ne arrivò un’altra decina, tutti armati di fucile,  intenzionati a fermare lo strapotere della gigantessa in città. Potevano essere la mia salvezza: non avevano alcuna speranza di riuscire nel loro intento, ma potevano aiutarmi a far perdere le tracce alla mia seviziatrice. Mi acquattai contro un portone: lì avrei potuto riprendere fiato senza essere visto. Michela reagì alla situazione con una sorta di ruggito: “MALEDETTI IMPICCIONI, ADESSO ME LA PAGHERETE”. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, l’uomo che per primo mi si era parato dinanzi fu raggiunto dalla punta del gigantesco piede sinistro, venendo schiacciato all’istante. La ragazza roteò più volte il piede sui resti della sua vittima, come se si fosse trattato di un mozzicone di sigaretta, terrorizzando alla morte gli altri compagni che continuavano a sparare.

Il piede destro si sollevò e andò a posarsi piatto sopra altri tre degli uomini armati. La cosa non sarebbe durata a lungo. Dovevo muovermi. I superstiti stavano indietreggiando: perfetto, se Michela li avesse inseguiti, sarei potuto passare dietro i suoi talloni e fuggire per la via perpendicolare a quella da cui ero arrivato. La gigantessa mosse un altro passo avanti, per avvicinarsi ai suoi minuscoli antagonisti. Era il momento: mi slanciai in mezzo alla strada alle spalle di Michela. Lanciai un ultimo sguardo alle sue incommensurabili estremità proprio mentre si preparava a calare il piede destro sopra qualche altro militare. Ce l’avrei fatta. Un violentissimo crack mi riportò alla dura realtà. L’asfalto aveva ceduto di schianto sotto il tallone sinistro di Michela, forse lì sotto c’era qualche ambiente sotterraneo. Vidi come al rallentatore il suo enorme corpo sbilanciarsi sopra di me, mentre il piede destro, come era naturale, cercava un appoggio più indietro per arrestare la caduta. La sventura volle che io fossi proprio su quel fatidico punto d’appoggio. Gridai alla vista della colossale pianta che si avvicinava verso di me a folle velocità, non avevo scampo, anche se mi avesse sentito, la gigantessa non avrebbe potuto fermarsi. La spessa pelle mi travolse come se fossi stato il più indifeso degli insetti, negli ultimi istanti di coscienza sentii il mio corpo esplodere sotto la tremenda pressione.

Michela si era vendicata.

Fine.






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